Storia della parrocchia

Notizie storico culturali

L’edificio della chiesa parrocchiale è stato eretto, su progetto dell’architetto Francesco Fornari, il 10 giugno 1952 con il decreto del Cardinale Vicario Clemente Micara “Per vigili cura” ed è stata inaugurata dallo stesso il 29 maggio 1953. Venne affidata prima al clero diocesano di Roma (1952-1965) poi al clero della diocesi di Bergamo. La chiesa fu visitata da papa Giovanni Paolo II il 14 novembre 1982. Esternamente la chiesa si presenta con un porticato, affiancato da un alto campanile. Nella parte superiore della facciata è inserita una finestra crociata sormontata da un mosaico raffigurante Maria Madre di Dio. Sotto il porticato, sopra la porta d’ingresso, è posto lo stemma di papa Pio XII, e la dedica della chiesa a Giustino martire.L’interno dell’edificio è a forma di capanna, con tetto a capriate ed un’unica navata.

Questa termina con un arco trionfale al centro del quale è sospeso un magnifico crocifisso (145×110 circa) opera del M° Ivan Polverari, raffigurante il Cristo morto e risorto con abiti sacerdotali come dall’antica Tradizione pittorica romana che si riscontra, in particolare, negli affreschi della Basilica di Santa Maria Antiqua. In alto sulle pareti della navata e sul presbiterio: una serie di 13 coppie di vetrate policrome, raffiguranti santi e sante alla quale la comunità parrocchiale è legata.Al centro dell’abside l’altare marmoreo dentro il quale sono conservate le reliquie di san Giustino. Nella parete di fondo un affresco che raffigura San Giustino con discepoli sovrastato dalla figura di Cristo che regge il mondo, e la scritta in latino: “Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” . A fianco due ricchi mosaici raffiguranti i Simboli degli evangelisti.

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Sul lato sinistro della navata si aprono due cappelle: la prima dedicata alla devozione alla BV. Addolorata. La seconda cappella è dedicata a san Giustino: all’interno sono poste due grandi opere (olio su tela 2,50×1,70) “Conversione di Giustino” e “Il Martirio di Giustino” opera del M° Barbara Cestoni.Dalla balconata in fondo alla chiesa si affaccia uno splendido ciclo di 16 icone (50×70) sulle Grandi Feste liturgiche cristiane, opera del M° Ivan Polverari e degli allievi del suo corso di iconografia. Salendo sulla balconata e guardando così dell’alto il presbiterio, si nota bene la simbolica forma della composizione attorno al tabernacolo. Un libro aperto (marmo verde) con al centro il prezioso tabernacolo di bronzo sostenuto da un mosaico dorato: al centro della Parola aperta e ascoltata i cristiani incontrano il Cristo pane vivo, e questo grazie al dono dello Spirito le cui ali sono bene identificabili dal profilo superiore dell’intera struttura.

Completano l’arredo interno una caratteristica Via crucis costituita da pannelli con bassorilievi in gesso e tre tele raffiguranti S.Barbara, S.Sebastiano ed il Sacro Cuore.

Il 2 giugno 2013, in occasione della consacrazione della chiesa parrocchiale e del nuovo altare, le pareti della chiesa si sono arricchite da quattro piccole croci in mosaico realizzate da don Arabia Giampiero, autore anche delle due fusioni in bronzo che chiudono il reliquiario davanti alla mensa e la custodia degli Olii Santi, a fianco del fonte battesimale .

Storia della Parrocchia
racconto di Piero Mele

La fondazione, il primo parroco

La Parrocchia è stata fondata il 10 giugno 1952, con decreto del Vicario di Roma cardinale Clemente Micara. La sua giurisdizione, ottenuta smembrando il territorio delle parrocchie di San Felice da Cantalice e dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, si estendeva sulla zona a cavallo di viale della Borgata Alessandrina, dalla via Casilina fino a Quarticciolo escluso, e fra via della Botanica e via Tor Tre Teste.

Non era ancora stata costruita la Chiesa parrocchiale, che fu inaugurata nel maggio del 1953. Le funzioni religiose si svolgevano nell’attuale sala teatro.

Il primo parroco fu don Gastone Moretti, prete romano, che tenne la parrocchia dal 1952 al 1956, affiancato da due vice parroci, don Ascanio Peronti e don Marcello Pieraccini. Gli seguì don Alberto Testi, dal 1956 al 1965, che ebbe come vice parroci prima don Ascanio, poi don Franco Dioletta e don Vincenzo Giovannini.

Un po’ di storia civile

Occorre spendere qualche parola per capire esattamente quale fosse la situazione della Borgata Alessandrina, in quegli anni.

Il territorio apparteneva all’Agro Romano e faceva parte non propriamente della città, quanto piuttosto della sua estrema periferia. Quando si doveva andare in centro, e ciò si rendeva necessario per le più disparate ragioni, poiché all’epoca nessun servizio pubblico era decentrato, si diceva: ” devo andare a Roma”…

La popolazione era, in grande maggioranza, di origine rurale. Braccianti e agricoltori del sud dell’Italia, delle Marche, dell’Umbria, dell’Abruzzo, della Ciociaria e della Campania accorrevano a Roma attratti dallo sviluppo edilizio e dalle mille opportunità di lavoro offerte dal suo ruolo di Capitale, in un paese che proveniva dallo sfascio della seconda guerra mondiale e che si avviava alla ricostruzione. Si trattava di ex-contadini che trovavano occupazione nell’edilizia, ma anche nella macchina dello Stato, in qualità di militari dei vari corpi, di addetti al terziario, d’impiegati comunali. L’attrattiva particolare dell’Alessandrina era costituita dall’esiguità (relativa) dei prezzi delle aree edificabili rispetto al centro della città. Numerosissimi erano coloro che lavoravano nell’edilizia nel corso della settimana per edificare i grandi quartieri dei palazzinari romani (Tuscolano, Trionfale, Appio-Latino, i quartieri verso il mare…) e che, nei giorni di sabato e domenica, si dedicavano a costruire la propria casetta, nel proprio appezzamento di terra, aiutati da amici e colleghi, retribuiti vicendevolmente attraverso una sorta di lavoro di scambio.

Moltissimi giungevano a Roma senza alcuna prospettiva, mossi solo dalla grande miseria e arretratezza delle loro regioni di provenienza: l’inserimento in città non era in nessun modo programmato e si emigrava a Roma solo perché motivati dalla disperazione, dalla disoccupazione, dalla fame. Giunti in città, non si era in grado di pagare l’affitto per un alloggio, anche misero. E allora si provvedeva alla casa con i soli mezzi possibili: furono gli anni delle baracche. In molte zone della città sorsero dei grandi agglomerati di alloggi di fortuna, costruiti su aree degradate e di proprietà non rivendicata, con materiali di recupero, di provenienza lecita e non lecita, privi di rete fognaria, di rete elettrica, di servizi, nel più completo spregio delle norme urbanistiche e di igiene.

All’alessandrina i fornici dell’antico acquedotto che dà il nome al quartiere furono adattati ad abitazioni. Si costruivano dei muri parallelamente alla struttura romana, si ricoprivano con un tetto, e ogni spazio fra fornice e fornice diveniva una casetta.

Un vero e proprio villaggio di baracche sorgeva sulla destra del viale Alessandrino, andando verso Quarticciolo, dove oggi c’è un

parco pubblico; agglomerati di tal genere sorgevano in tutti i quartieri vicini.

Le strade erano tutte sterrate. Lungo l’attuale via Togliatti scorreva, fino all’Aniene, un corso d’acqua, chiamato marrana o fosso di Centocelle, che si superava con un ponticello di legno, all’altezza degli archi, di una certa importanza come portata delle acque, tanto che nelle sue non rarissime esondazioni, la Borgata Alessandrina veniva isolata dal centro.

Le comunicazioni erano affidate al trenino a scartamento ridotto delle Ferrovie Vicinali, poi passato, in successione, alle gestioni STEFER, ACOTRAL e, infine COTRAL, che, nella tratta Grotte Celoni – Roma, era utilizzato come ferrovia urbana. C’era poi, per noi importantissima, la diramazione di tale linea che dalla stazione di Centocelle raggiungeva piazza dei Mirti. Sulla linea circolavano sia i treni vicinali, diretti a Fiuggi o Genazzano, sia le linee urbane (per Grotte Celoni o per Piazza dei Mirti). I treni per Grotte Celoni avevano una frequenza di circolazione inferiore, e un prezzo superiore, rispetto a quelli per piazza dei Mirti, sicché per noi dell’Alessandrina, specie per chi abitava verso via della Botanica, era conveniente fare un tratto a piedi, fino alla fermata di San Felice, piuttosto che attendere il Grotte Celoni. Sulla via Prenestina, già allora, circolavano anche i tram gestiti dall’ATAC, ma non erano molto utilizzati dai nostri cittadini, a causa della scomodità a raggiungere il capolinea ( via della Botanica, poi via Togliatti, non esisteva ancora). Per poter andare un po’ più veloci, lungo via Casilina circolavano anche dei bus, gestiti anch’essi dalla STEFER, fino a Grotte Celoni. L’autobus veniva chiamato “celere” e il biglietto della corsa costava qualche decina di lire in più del “tramvetto”.

Le comunicazioni all’interno della Borgata e per il collegamento con le borgate limitrofe erano assicurate da alcuni sgangherati autobus gestiti dalla società ATAR (era una società controllata dalla ATAN di Napoli, nientemeno). Gran parte delle strade non erano asfaltate, e l’andamento planimetrico delle vie seguiva i rilievi naturali, senza i moderni livellamenti: automezzi, specie in salita, arrancavano penosamente, e non era raro il caso in cui i passeggeri dovevano scendere e spingere l’ansimante autobus. I bus che maggiormente ci interessavano, poiché collegavano l’Alessandrina con Centocelle, seguivano un percorso circolare, in entrambe le direzioni, l’uno verso destra e l’altro verso sinistra, i mitici 1/S e 1/D, che in molte strade oggi a senso unico, s’incrociavano, con già grandi difficoltà di circolazione allora, vista la ristrettezza della sede stradale, finché, avvenuta la completa motorizzazione del paese la corsa circolare in senso sinistro venne soppressa (la gestione era passata all’ATAC, le due linee erano denominate 113 e 114 e ad essere soppressa fu la linea 113). Oggi entrambe le linee non esistono più.

Le scuole pubbliche consistevano nell’edificio della scuola elementare Guglielmo Marconi, appena costruita, che ospitò da subito un numero rilevante di scolari, che col tempo divenne sempre maggiore, in un’epoca di progressiva, repentina urbanizzazione e di espansione selvaggia della città, tanto che negli anni intorno al 1960 erano in vigore tripli turni scolastici.

Non esisteva nessuna scuola media inferiore, almeno fino ai primi anni del ’60 né, tantomeno, superiore (e ciò riguarda anche i nostri giorni).

La scuola Media Fedro non disponeva di un edificio proprio, come può testimoniare direttamente l’ estensore di queste righe; la direzione aveva sede al piano terra di una palazzina di civile abitazione, in via dei Ginepri; le lezioni si svolgevano in locali pressoché di fortuna, di norma in piani terra di palazzine ordinarie, presi in affitto dal Ministero dell’Istruzione, trasformando locali destinati a negozi e attività commerciali in aule. In particolare all’Alessandrino si utilizzavano come scuola i locali dell’Oratorio di San Giustino. Chi scrive ha frequentato le classi prima e seconda media

in Oratorio, e la terza media nello scantinato di una palazzina in via delle Sequoie.

Le dotazioni didattiche a disposizione erano molto povere: in nessuna delle classi esisteva un sistema di riscaldamento, se non delle stufe elettriche mobili, che, logicamente, venivano sistemate sempre vicino alla cattedra. Per la scelta della lingua straniera formalmente si teneva conto dei desideri dell’alunno, ma in realtà, poiché la disponibilità d’insegnanti di lingua inglese (per non parlare del tedesco o dello spagnolo) non era adeguata alle richieste, la scuola, di fatto, ignorava i desideri dello studente; il sottoscritto, ad esempio, pur avendo optato per l’inglese, si trovò invece in una classe in cui la lingua straniera studiata era il francese.

L’economia aveva ancora un respiro strettamente locale. Gli esercizi commerciali erano moltissimi e di piccole dimensioni. Non erano disponibili ancora i moderni frigoriferi domestici; pertanto la popolazione era costretta ad approvvigionarsi giornalmente delle cibarie che consumava. Quasi tutte le merci erano vendute sciolte: la pasta, il latte, il vino, persino le sigarette. Non esistevano i Centri Commerciali, ma il mercato rionale all’aperto di via del Grano ospitava più di trenta banchi mobili, che occupavano tutto il tratto della strada fra via della Bella Villa e via degli Oleandri. Chi era in vena di affrontare un maggior tragitto si poteva recare al mercato di Centocelle, che era più vasto.

Si era molto più sobri di oggi, e si viveva il quartiere in modo molto più sociale. La televisione, e gli altri mezzi di comunicazione di massa erano in una fase di sviluppo ancora embrionale. Pertanto, durante il tempo libero, non era possibile evitare di frequentare i propri vicini, i propri compagni di classe. Il tempo libero veniva trascorso collettivamente, a giocare insieme con gli altri.

I ragazzi e le ragazze, anche se a scuola venivano tenuti separati in classi maschili e femminili, scendevano a giocare in strada, a esercitare quei giochi di gruppo di cui si è persa la memoria. I maschi si raccoglievano a frotte e si misuravano in interminabili gare di pallone, dove vinceva la compagine che per prima arrivava a segnare venti gol. Molto praticate, e molto temute dalle mamme, erano anche le sassaiole, dove due formazioni di ragazzi si scontravano l’una contro l’altra lanciandosi vicendevolmente delle pietre. Ricordo quanto erano sentiti gli scontri con i ragazzi della “Corea”, così veniva definita l’area del quartiere intorno alla scuola Marconi. Tali battaglie terminavano spesso con il sanguinamento di qualche testa, colpita dal sasso avversario. Le femmine giocavano a campana, o a palla prigioniera. Talvolta i giochi si svolgevano fra entrambi i sessi, specie se i ragazzi protagonisti erano in età prossime alla pubertà.

La vita delle famiglie era molto diversa da quella di oggi. Il nostro paese si avviava alla ricostruzione dalla distruzione del conflitto mondiale e, economicamente, cominciavano a intravedersi i segni di uno sviluppo economico straordinario, anche se riguardavano solo in parte i quartieri popolari come l’Alessandrina.

In quest’ ambito trascorrevano i primi anni della parrocchia di San Giustino.

Un po’ di storia religiosa

Da subito la Parrocchia si è inserita nel contesto del quartiere e non poteva essere diversamente, poiché nel territorio, non c’erano punti di ritrovo, se non le trattorie e le sezioni locali dei partiti politici.

La Parrocchia rispondeva certamente alle esigenze squisitamente religiose, ma aveva anche una funzione di carattere sociale.

In ambito strettamente religioso, ricordiamo che siamo in epoca preconciliare, e il ruolo del popolo di Dio nel cammino della Chiesa è visto solo come quello del gregge guidato dal pastore, con una netta e indiscussa

predominanza delle attribuzioni e del ruolo dei membri consacrati. C’era una grande e intensa partecipazione alle messe, ai riti, alle processioni, ai pellegrinaggi, a tutte le manifestazioni esteriori, in generale.

L’attività oratoriale aveva luogo principalmente di domenica. Ai bambini e ai ragazzi era riservata la messa delle ore 9.00.

Dopo la Messa si svolgeva il catechismo in cui, ragazzi e ragazze, separati per sesso e per classe di età, imparavano il catechismo di Pio IX, mandando a memoria le risposte. S’imparavano a memoria anche le parti della Messa, le preghiere e i canti. Si tenga conto che molti testi erano proposti in latino, un latino che talvolta diventava fantasioso e fortemente compromesso dal modo di pronunciare non propriamente classico di tanti fedeli non certamente dotti latinisti. I sacerdoti erano più precisi, poiché, quasi tutti, avevano una formazione classica, raramente scientifica.

Dopo il Catechismo domenicale, che non era strettamente finalizzato alla preparazione alla Comunione e alla Cresima, iniziava il momento dei giochi in oratorio. Il Direttore dell’Oratorio, il mitico signor Guidi, sovraintendeva alla distribuzione dei biscotti che provenivano dalla P.O.A. (Pontificia Opera di Assistenza), una struttura Vaticana antesignana della Caritas, e poi, finalmente, si giocava: ancora a calcio, ma anche a ruba bandiera, nascondino, a rincorrersi, a nizza, se non c’era nessun adulto a impedircelo.

Per la preparazione ai sacramenti si seguivano dei corsi specifici, durante la settimana, i cui temi coincidevano con quelli ordinari dell’Oratorio, ma che erano più stringenti e vincolanti rispetto alla necessità di conoscere a memoria tutto quello che era richiesto per diventare “soldati di Cristo”. Comunione e Cresima venivano celebrate insieme, nello stesso giorno, e di solito ciò avveniva molto presto, anche intorno ai sei, sette anni.

Gli adulti erano anch’essi separati per sesso e la loro attività parrocchiale era di supporto al parroco: gli uomini, che principalmente si schieravano nell’Azione Cattolica, collaboravano con il parroco nell’organizzazione dei riti esterni, in particolare le processioni, le feste parrocchiali e i pellegrinaggi. Voglio ricordare che la parrocchia era frequentata dalle persone moderate in politica, e che avanzavano all’autorità amministrativa il miglioramento delle condizioni del quartiere, esattamente come facevano i lavoratori dell’opposizione. C’era molto da fare e da richiedere: l’asfaltatura delle strade, l’illuminazione, il miglioramento dei servizi pubblici di trasporto.

La polemica politica era alta e c’era aspro contrasto fra coloro che frequentavano la chiesa e coloro che, al contrario, frequentavano la sezione del P.C.I. I primi attribuivano ai secondi offese quali “ammazza preti” o “scomunicati”, essendo tacciati, a loro volta, con epiteti del tipo “servi del padrone”.

I tempi erano quelli mirabilmente descritti da Guareschi, nei romanzi di don Camillo e di Peppone. Anche all’Alessandrina si creava una sorta di militante contrasto fra cattolici e “comunisti”, fatto di una rissosità strapaesana, di spintoni e borbottii, in una gara di emulazione su chi meglio fosse riuscito a interpretare le esigenze popolari. In questa battaglia, a fianco del Parroco, militavano gli uomini frequentatori della Parrocchia.

Anche le donne erano organizzate nell’Azione Cattolica. Si occupavano per lo più di liturgia e collaboravano particolarmente nell’organizzazione del mese mariano, con la preghiera nelle case e con la “peregrinatio Mariae”. Molte donne e madri di famiglia erano catechiste.

Esisteva un gruppo di “dame di san Vincenzo” che, con risorse del tutto inadeguate, pensava comunque ai più poveri e distribuiva i generi alimentari della POA.

Voglio infine sottolineare che, sul piano di alcuni aspetti di costume, i tempi erano molto diversi rispetto a oggi. Una differenza abissale.

Rimaneva rigida la separazione fisica fra i sessi, anche durante i riti liturgici. C’era una fila di banchi per gli uomini e una fila per le donne. Gli uomini assistevano alla liturgia con il cappello o il berretto in mano (allora quasi nessuno osava uscire di casa senza copricapo) e prendevano posto nella fila di destra, per lo più senza partecipare ai canti e senza rispondere; le femmine, tutte con il capo coperto dal velo, sedevano invece nella fila di banchi di sinistra, e, di norma, la loro partecipazione era più attiva.

In Chiesa, da parte di coloro che la frequentavano, vigeva un atteggiamento di compostezza, di autocensura, di autocontrollo che oggi sarebbe impensabile. Coloro che frequentavano la Chiesa non si permettevano nemmeno di pronunciare quelle espressioni vernacolari un po’ scollacciate, tipiche del dialetto romanesco: in chiesa non erano tollerate “parolacce” o imprecazioni, né battute allusive. La lunghezza delle gonne e l’ampiezza e la profondità delle scollature delle signore e delle ragazze dovevano essere sempre adeguate al luogo e alle circostanze. Gli argomenti che potevano avere attinenza con il sesso erano rigidamente banditi, anche se si era in convivialità, anche nei momenti di gioia e di festeggiamento.

Ai ragazzi e alle ragazze che volevano essere più presenti in Parrocchia si offriva l’opportunità di partecipare all’Azione Cattolica. Per le ragazze c’era la GIEFFE (gioventù femminile di Azione Cattolica) e per i ragazzi la GIAC (Gioventù maschile di Azione Cattolica). Erano separate fra loro, in modo che mai l’attività della GIAC coincideva con quella della GIEFFE, se non durante alcuni raduni generali in Vaticano. C’era un assistente spirituale specifico che seguiva i gruppi maschile e femminile. I gruppi si trovavano in un giorno fisso, durante la settimana, per “l’adunanza”, durante la quale i capigruppo, coordinati dal “delegato” organizzavano alcune attività per i ragazzi, di tipo grafico e cartellonistico, con tema religioso. Di solito si realizzava un giornale murale. Si era divisi per età, in ordine crescente: “aspiranti”, ” pre-ju”, “juniores”. In alcuni periodi dell’anno ci si riuniva tutti insieme e l’Assistente parlava a tutto il gruppo su temi importanti di carattere evangelico. Mi ricordo in particolare don Franco Dioletta, vice parroco ai tempi di don Alberto Testi, che durante l’Avvento o durante la Quaresima si rivolgeva agli aspiranti illustrando i temi evangelici oggetto della liturgia di quei periodi. Don Franco era tanto coinvolto dalla liturgia quaresimale e dalla storia della Passione, che nelle sue prolusioni arrivava fino alla commozione, fino alle lacrime. Era di un moralismo sicuramente di altri tempi. Una volta chiamò a raccolta tutta la GIAC parrocchiale per rimproverare pubblicamente alcuni “pre -ju” e “juniores” che avevano avuto l’ardire di organizzare una festa da ballo con le ragazze, in casa di uno di essi, come si usava in quegli anni, e per sottolineare come questa sconvenienza stridesse con l’impegno di santificazione che si erano assunti. Ho citato quest’avvenimento senza intenzione di drammatizzare o criticare o esasperare; intendo solo far constatare che l’atteggiamento generale, l’aria che si respirava, i valori condivisi, erano molto più volti alla sobrietà, alla morigeratezza che non oggi.

I ragazzi maschi, nel frequentare la parrocchia, avevano una possibilità in più rispetto alle femmine: potevano scegliere di partecipare al gruppo dei “chierichetti”. Anch’essi erano seguiti da un loro “Assistente Spirituale”. Rispetto agli altri ragazzi erano particolarmente abili nel conoscere la liturgia e il formulario (si ricordi che la Messa era pre-conciliare, in latino). Di norma, chi era chierichetto non poteva essere, contemporaneamente, “aspirante”.

A proposito di quegli anni, forse alcuni fra i più anziani possono ricordarselo, si può riferire una circostanza piuttosto singolare: Il nostro territorio veniva considerato un po’ come una terra di missione; veniva celebrata una messa, la domenica mattina, presso un garage di via dell’Alloro. L’officiante era un giovane prete di Torino, brillantissimo studente di teologia fondamentale presso

l’Università Gregoriana, destinato ad avere un luminoso futuro nella Chiesa Italiana: Carlo Maria Martini, teologo d’importanza internazionale, che sarà poi chiamato alla direzione della diocesi di Milano.

Nella Chiesa preconciliare aveva grande importanza la liturgia. C’era, infatti, una certa ritrosia da parte del clero a permettere che i laici, senza guida, potessero autonomamente avvicinarsi da soli alla lettura della Parola di Dio, attività che essi ritenevano essere di loro spettanza quasi esclusiva.

E, infatti, i parroci erano grandi liturgisti e grandi predicatori. Noi ragazzini avevamo terrore del buon don Alberto Testi e delle sue ridondanti prediche domenicali, che ci parevano assolutamente logorroiche.

La parrocchia continuava a essere molto attiva anche perché il quartiere era ormai in piena espansione demografica e la Parrocchia, sempre più, era determinante nel territorio quale luogo di riferimento e di possibilità di associazione.

I cambiamenti degli anni ’60

Siamo arrivati intorno agli anni 1960. In Borgata, che da allora chiameremo quartiere, è quasi completata l’urbanizzazione. Non esistono più aree non edificate. Non esistono più strade non asfaltate. La rete fognaria è stata ormai completata. E’ stato aperto il primo supermercato di quartiere, all’angolo fra via Casilina e viale Alessandrino. Soprattutto, nel 1961 viene completato il nuovo quartiere INA CASA di Torre Spaccata, al di là della Casilina, e, tutte insieme, migliaia di persone vennero ad abitare accanto al nostro quartiere, in luoghi nei quali, prima dell’urbanizzazione, andavamo a fare le scampagnate a pasquetta e il primo maggio.

Nella Chiesa romana si acuisce sempre più il fenomeno, che ancora oggi perdura, della crisi delle vocazioni.

A San Giustino don Alberto stringe i denti, ma don Franco Dioletta è stato trasferito ad altro incarico. In parrocchia c’è bisogno di sacerdoti collaboratori. A San Giustino cominciano ad alternarsi, per tempi anche lunghi, sempre più sacerdoti stranieri, con grande frequenza. Chi scrive ricorda ad esempio un sacerdote messicano certamente bravo e santo, ma del tutto ignaro della lingua italiana, o almeno con forti problemi di comprensione, sicché era un problema serio capire le sue prolusioni o ascoltarlo in confessionale.

In tutta la Chiesa comincia ad avvertirsi un respiro nuovo. Si pensa che la Chiesa debba avvicinarsi di più al suo popolo. Si pensa che al centro della fede ci sia la Parola di Dio. Si pensa che ci sia bisogno di rinnovare la Chiesa, per attrezzarla ad affrontare il futuro, la nuova società, l’internazionalizzazione. Nel 1962, infatti, inizia il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, che tanta grazia e tanti benefici porterà alla Chiesa universale, e alla nostra Chiesa locale di San Giustino.

Il Concilio Vaticano secondo e i preti bergamaschi

In questo quadro favorevole, volto al progresso e al rinnovamento, nell’ambito di questo nuovo respiro che si va introducendo nella Chiesa, si realizza un accordo fra la Diocesi di Bergamo e quella di Roma. La diocesi di Bergamo gode di un numero di vocazioni sacerdotali più rilevante che a Roma. A Bergamo è sorta una comunità missionaria di sacerdoti, denominata “comunità del Paradiso”, dal nome della strada dove essa ha sede. A questa comunità viene proposto di offrire fraternamente al Papa di Roma i sacerdoti per guidare la parrocchia di san Giustino. Questi sacerdoti accettano.

Siamo nel 1965. Il nuovo parroco di san Giustino è don Pietro Bognini, bergamasco, proveniente da una parrocchia di Bibbiena. Con lui arriva don Paolo Rota, che si occuperà dei giovani e dell’oratorio. In seguito arriveranno don Mario Benigni e don Mario Usubelli, a completamento di un

fantastico quartetto, di cui i parrocchiani hanno ancora un ricordo vivissimo.

Il rinnovamento in Parrocchia è rapidissimo, in quanto i preti bergamaschi dimostrano di essere pastori instancabili ed estremamente innovativi nel presentare la loro proposta di fede. I fedeli, dal canto loro, apprezzano di poter contare finalmente su un clero stabile e, per di più, così propositivo.

E’ cambiata anche la situazione della Chiesa. Il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo è appena concluso e comincia a irradiare i suoi frutti di rinnovamento. Il cambiamento è evidente, da subito, per tutti i fedeli.

Ci sono decisivi mutamenti nella liturgia, primo fra tutti, l’abbandono del latino come lingua ufficiale della Chiesa e la celebrazione ordinaria delle messe in italiano. Cambia anche la disposizione dell’altare rispetto al popolo che celebra: l’officiante non da più le spalle ai fedeli, ma è rivolto verso di loro. L’assemblea partecipa alla Messa con un ruolo più attivo nella liturgia della parola e nella preghiera dei fedeli. La rivoluzione più importante è che il Concilio invita tutto il popolo di Dio a ricorrere allo studio e alla lettura della Parola, anche senza la direzione del Pastore: questa straordinaria novità incoraggia anche i laici a leggere la Bibbia, a partecipare alle Catechesi, a curare la propria formazione religiosa mettendoci impegno personale, e non limitandosi alle sole sollecitazioni del clero o a seguitare a subire una catechesi ripetitiva e mnemonica, fatta di formule ormai un po’ desuete. Nella vita quotidiana delle parrocchie il Parroco cerca maggiormente la cooperazione dei laici. In precedenza il parroco era il protagonista assoluto di tutte le attività parrocchiali; dal Concilio in avanti furono introdotti larghi spazi di autonomia, in materie importanti.

Fra i più evidenti cambiamenti si ebbe l’introduzione degli strumenti musicali moderni nella Messa; i canti non erano più quelli di tipo melodico con testo in italiano arcaico che provenivano dalla tradizione, oppure i canti salmodiati o addirittura in stile gregoriano, in lingua latina. Cominciò a essere suonata musica di carattere ritmico, si usarono le chitarre e gli strumenti a percussione, i testi divennero meno reboanti e più discorsivi.

Cambiamenti importanti avvenivano in quegli anni nella società e nella politica. Nel mondo occidentale si era superato ormai il dramma della seconda guerra mondiale e l’economia appariva in grande crescita. Era molto migliorato il livello d’istruzione generale e la consapevolezza delle classi lavoratrici ne risultava incentivata. Si stavano sgretolando i grandi imperi coloniali ed appariva più vicina un’epoca di benessere, in cui tutti potevano nutrire la speranza di un futuro migliore. Si affacciavano nella società i giovani, con il loro spirito innovativo e dissacratorio, con le loro proposte sconvolgenti. Si cominciarono a vedere “i capelloni”, le “minigonne”, “i complessi”, le proteste studentesche. Furono gli anni mitici del ’68, che, al di là di quanto ciascuno ne potesse pensare, produssero nella società degli sconvolgimenti definitivi. Pensiamo alla rivoluzione dei comportamenti sessuali, alle modificazioni del rapporto padri-figli, ai cambiamenti del costume, del modo di divertirsi e di istruirsi, al peso sempre maggiore dei mezzi di comunicazione di massa nella cultura, nel sapere e nella concezione e fruizione del tempo libero.

I preti bergamaschi governarono quegli anni formidabili.

Don Pietro Bognini, detto don Pietrone, a causa della sua alta statura, era il Parroco, ed era il capo dell’équipe sacerdotale. Si occupava particolarmente degli adulti e della Liturgia. Era una persona affabile e pronta al confronto, con modi simpaticamente diretti. Nel dirimere le questioni che gli si presentavano, come ad esempio le baruffe fra ragazzi, non aveva remore a risolvere il contrasto con un sonoro scapaccione.

I preti bergamaschi si resero subito conto di quanto era arretrata socialmente la

Comunità di cui erano alla guida e di quanto grandi fossero le manchevolezze del territorio parrocchiale. Don Pietro era spontaneo e immediato nel rapporto interpersonale. Da Parroco aveva capito subito che interessarsi del proprio gregge significava aprirsi alla società, cercare un rapporto con i politici, in particolare con la Circoscrizione e il Comune. Sollecitò gli adulti a costituire un Comitato di Quartiere, per studiare le realizzazioni di cui il territorio aveva bisogno e proporle agli amministratori.

La parrocchia e don Pietro si erano battuti con insistenza per ottenere la sistemazione e l’allargamento di viale Alessandrino. Coerentemente con la richiesta, la parrocchia per prima accettò di cedere parte del suo sagrato alla collettività, arretrando il suo limite con viale Alessandrino.

I nuovi preti bergamaschi si resero conto che il territorio parrocchiale era privo di luoghi che potessero essere punti di riferimento per la popolazione. Non esistevano infatti centri di aggregazione, se non, come detto, le sezioni dei tre partiti politici più importanti.

Convinti anche dell’importanza dello sport nella maturazione equilibrata dei giovani, s’impegnarono da subito a costruire la possibilità che intorno alla Parrocchia di san Giustino, si potesse edificare un nuovo, grande Centro Sportivo. Furono fatte le opportune ricerche urbanistiche, fu sensibilizzata la comunità parrocchiale, sollecitati a intervenire alcuni politici nazionali e locali, conquistato l’assenso del Vicariato; la parrocchia riuscì ad acquisire un’area retrostante all’edificio parrocchiale preesistente e, finalmente, si inaugurò il Centro Sportivo San Giustino, nel dicembre del 1968.

Esso sorgeva su una superficie significativamente ampliata, rispetto a quella occupata dalla parrocchia secondo la sistemazione precedente. Di spalle alla Chiesa era edificato un edificio in cui aveva sede il bar del Centro Sportivo, quattro spogliatoi, i locali di servizio per il custode, l’ufficio di don Paolo, e, in alto al piano superiore, alcuni alloggi per i sacerdoti.

Oltre il campetto in terra battuta, con il quale terminava il precedente oratorio, la proprietà parrocchiale si estendeva verso via Buonafede, con un campo di calcio regolamentare, un campo di tennis in terra rossa, un campo di Pallavolo, un campo di Pallacanestro. All’estremità della proprietà, lato via Bella Villa, si edificò un circolo bocciofilo con quattro campi (due coperti e due scoperti) e con un bar ristoro. Poco dopo, le aree adibite a pallavolo e pallacanestro furono coperte con un pallone pressostatico, sicché il centro poté disporre di una grande palestra (c’era anche una piccola tribuna per il pubblico). Unitamente al pallone, si realizzarono i nuovi spogliatoi a servizio dello stesso.

Nel Gruppo Sportivo profuse massimamente il suo impegno don Paolo Rota. Si creò una società sportiva denominata G.S. Alessandrina, che partecipava ai campionati organizzati dal Centro Sportivo Italiano, un ente di promozione sportiva ancora attivo, del quale don Paolo divenne, ben presto, Assistente Spirituale e Dirigente nazionale.

Si disputavano anche alcuni campionati federali, se le contingenze lo consentivano.

Don Paolo, gran sacerdote, era persona di grandi capacità educative, avendo per questo tema una profonda sensibilità, coltivata e raffinata con studi sistematici; egli contribuì come nessun altro al successo del G.S. Alessandrina.

L’organizzazione interna del Gruppo Sportivo era straordinariamente innovativa. Esso era costituito da tutti gli iscritti: soci, dirigenti, genitori e atleti, aventi tutti il medesimo diritto di voto. Le frequenti assemblee regolavano la democrazia del sodalizio. Si eleggeva un presidente, un Consiglio Direttivo, un Direttore Sportivo; il solo Assistente Spirituale era membro di diritto. La regola generale era: ogni testa, un voto, anche se la testa era quella di un ragazzino

di dodici anni. La partecipazione era completamente gratuita sicché non erano mai le condizioni economiche familiari a determinare o meno la scelta di iscriversi al sodalizio. All’inizio l’intero bilancio del Gruppo Sportivo gravava sulla parrocchia. Quando il Gruppo fu ben avviato, le spese generali cominciarono a divenire consistenti e non più sostenibili dal bilancio parrocchiale. Solo allora si chiese agli atleti di provvedere da se all’acquisto delle scarpe sportive. La parrocchia e il suo presbiterio determinavano l’indirizzo generale del Gruppo Sportivo, che era quello di concepire, e tentare di organizzare, lo sport come mezzo per la crescita della persona. Le decisioni sportive venivano prese in assemblea. Mi piace rimarcare la straordinaria importanza educativa che questi consessi assumevano fra i ragazzi del territorio. Quanti ragazzi e giovani dell’Alessandrina impararono, proprio qui, a prendere la parola in pubblico, ad articolare, all’interno di una pubblica assemblea, un intervento organico complesso, a tacere per ascoltare le argomentazioni altrui senza interrompere, e imparare a esporre il proprio pensiero nei modi dovuti e nel tempo concesso.

Il Centro Sportivo impegnava circa trecento fra ragazzi e ragazze. Venivano praticati il calcio, la pallacanestro, la pallavolo, l’atletica leggera e il tennis. Era presente un importante numero di adulti, nelle figure di dirigenti, allenatori, accompagnatori, amici del Gruppo Sportivo.

Anche ai ragazzi del territorio venivano proposti il gioco e l’attività sportiva. Don Paolo organizzò alcune edizioni delle “Olimpiadi dell’Alessandrina” che consistevano nel far sorgere, nel territorio parrocchiale, alcune rappresentative sulla base ciascuna della propria strada di abitazione; tali rappresentative partecipavano, in Oratorio, alle varie gare dell’Olimpiade: la corsa dei cento metri, il salto in lungo, la gara di pallavolo… Si terminava con la proclamazione dei vincitori e la consegna delle medaglie da parte del parroco, con tanto di podio, di fotografie e d’inno celebrativo.

Di pari passo al Gruppo Sportivo, marciavano l’oratorio e la catechesi ordinaria per i ragazzi e per le ragazze.

Per l’oratorio femminile, oggettivamente mancante, era stata chiesta la disponibilità della casa delle suore della Provvidenza che, volentieri, avevano accolto la proposta e ospitato.

Si aprì anche un’attività scoutistica che ebbe un seguito rilevante, sotto la direzione di don Mario Benigni.

Le catechesi ci sembravano straordinariamente innovative, rispetto al passato. Io ricordo il personale coinvolgimento delle “revisioni di vita”, delle uscite fuori parrocchia, e delle celebrazioni liturgiche effettuate senza vasi sacri e senza materiali nobili, dei ritiri spirituali.

Fu in quegli anni che iniziò un discorso ecumenico di apertura e di condivisione con la comunità battista di via delle Spighe, con il pastore Chiarelli

La Parrocchia era presente all’interno delle discussioni che in quegli anni venivano proposte, a tutti i livelli: si discorreva di fede, di povertà, di salvaguardia del creato, di popoli in via di sviluppo e della loro liturgia ancorata alle tradizioni: mi ricordo quando don Paolo ci presentò un famoso disco: “Missa Luba”, sui canti tradizionali congolesi in accompagnamento della celebrazione eucaristica o l’altrettanto famoso: “Clausura” di Sergio Zavoli, che per la prima volta nella storia introdusse un microfono in un monastero femminile carmelitano che ci consentì di ascoltare la dolcissima voce di quella suora, di cui tutti ci innamorammo,.

Guidati da don Paolo, per la prima volta ci veniva proposta l’occasione di educare e far maturare anche il gusto musicale, attraverso l’ascolto della musica classica.

Si cercava, sollecitati dall’atmosfera frizzante di quegli anni, di non isolarsi, di essere al tempo con il momento. In Parrocchia veniva organizzato un frequentatissimo cineforum, che vedeva la partecipazione di centinaia di giovani e ragazzi. Don Paolo era sempre presente. Spesso c’era anche il parroco. Veniva invitato a coordinare il dibattito un sacerdote esperto cinematografico o di discipline sociali, a seconda dei temi trattati dal film in discussione e, dopo il film, iniziava un partecipato, a volte combattuto, dibattito.

Venimmo avviati, per la prima volta, alle opere di carità, concretamente.

Avevamo un rapporto continuativo con un istituto sito sulla via Appia in cui erano ospitati giovani e ragazzi con problemi di handicap fisico e mentale: guidati da don Paolo ci recavamo regolarmente in questo Istituto, dove giocavamo con questi ragazzi, tenevamo loro compagnia, stavamo insieme. Mi ricordo che ci attendevano con ansia, la domenica pomeriggio.

Altro luogo in cui esercitavamo la carità era un borgo di baracche situato nei pressi dell’aeroporto di Centocelle (quello stesso agglomerato di baracche successivamente fu individuato con il nome di Casilino 23). Allora era un nucleo abitato da immigrati di Napoli e provincia, che vivevano con mezzi di fortuna e che si occupavano, soprattutto, della preparazione e della vendita delle trecce di aglio.

C’era un’immensa miseria, una preoccupante promiscuità in quelle baracche costituite da un unico ambiente, e una folla di ragazzini. C’era anche una baracca un po’ più grande delle altre, che fungeva da chiesa. Noi ci occupavamo dei ragazzi e li facevamo giocare a pallone. Li portammo anche a San Giustino in occasione di uno dei tornei che venivano organizzati in Oratorio, inquadrati nella squadra “Internapoli”.

Dicevo che erano anni frizzanti, anche nella Chiesa.

All’ordine del giorno c’erano i preti operai, (e qualche studente proveniente dal Collegio Lombardo, che aiutava i preti la domenica, era molto sensibile a questa esperienza), c’era la comunità di Taizé, c’era la teologia della Liberazione, cera don Milani, la scuola di Barbiana e la proposta educativa della “lettera a una professoressa”, la “Nomadelfia” di don Zeno.

Al di fuori della Chiesa c’era la sommossa studentesca del ’68, la rivoluzione dei fiori, il femminismo, il movimento dei radicali, il sorgere delle formazioni politiche extraparlamentari, le prime occupazioni sistematiche delle scuole, i contrasti, anche violenti, fra destra e sinistra.

Tutti eravamo sensibili ai temi sociali. Noi, in particolare, che frequentavano la Chiesa, ancora di più, perché ci pareva che l’impegno sociale fosse l’unico modo per un credente per tradurre in pratica l’insegnamento di Cristo. D’altro canto si cresceva di età, si entrava all’Università, aumentavano le responsabilità personali, si sentiva sulla propria pelle il cambiamento in atto nella società, ed esaurire i propri interessi nella frequentazione dell’oratorio cominciò ad apparirci come un limite allo sviluppo della nostra personalità, come un chiudersi in un ambito protetto, come un rifiuto a misurarsi con i nuovi temi.

Il Gruppo Sportivo aveva assunto caratteristiche sempre più agonistiche e, poiché in molte discipline eravamo diventati bravi, cominciò ad interessarci troppo il risultato sportivo, la vittoria nei campionati. La Pallavolo aveva conquistato la serie C, la prima squadra richiedeva quantità di danaro improponibile per quel Gruppo Sportivo; tutto il settore si cercò uno sponsor e si staccò dal G.S. Alessandrina; il calcio arrivò a disputare la Prima Categoria: il nostro stesso impianto di gioco non era più adeguato, e il settore calcio spostò la sua attività al campo Ferri. Mutarono radicalmente le prospettive economiche per poter esercitare l’attività ai livelli sportivi raggiunti e, ormai, desiderati. Anche la pallacanestro approdò alla serie C. I

protagonisti, cresciuti nell’Alessandrina, se ne separarono per proseguire l’attività a questi livelli elevati, adeguarono l’impianto parrocchiale ai requisiti richiesti dalla nuova situazione sportiva, finanziando di tasca propria i miglioramenti strutturali necessari. Di fatto, il Gruppo Sportivo non aveva più un rapporto diretto con la parrocchia, e il legame pedagogico-educativo con l’Oratorio si allentò irrimediabilmente.

Insomma il ruolo del Gruppo Sportivo, di quella grande costruzione parrocchiale che era stato e che aveva assunto una notorietà addirittura cittadina (il Gruppo Sportivo raccolse più volte l’interesse della Televisione e della carta stampata, ovvero di alcune testate giornalistiche locali e nazionali, che pubblicarono varie interviste aventi l’Alessandrina come protagonista) andò a scemare sempre più.

Ci fu anche, un cambiamento strutturale della società e del territorio parrocchiale, che non poteva essere valutato nella sua interezza, da noi coinvolti come eravamo, tutti, nella vita del GS Alessandrina e che non poteva che produrre conseguenze decisive.

Oggi, dopo che i cambiamenti della società sono stati acquisiti e che si sono sedimentati, possiamo affermare con forza che Don Pietro e don Paolo furono innanzitutto dei preti, degli ottimi preti e che il risultato apparentemente deludente del loro operato non è ascrivibile ad alcuna pecca del loro lavoro pastorale che fu invece di qualità finissima, di zelo inoppugnabile, d’intelligenza squisita, all’insegna di una santità personale che l’affetto immutato di molti apprezza ancora oggi, nel suo inestimabile valore.

Fra coloro che erano responsabili degli indirizzi generali della Parrocchia si decise che la Parrocchia era troppo coinvolta nella scelta dello sport come mezzo di crescita sociale e religiosa e che nel gruppo sportivo Alessandrina cominciavano a prevalere concezioni del risultato e della pratica sportiva non più condivisibili, orientate solo all’agonismo. Si contestava che lo sport conservasse in se stesso valori positivi e educativi, indipendentemente da un robusto apporto di pastorale religiosa che lo affiancasse e che ne determinasse gli orientamenti. Occorreva ripristinare il taglio squisitamente religioso della proposta educativa della parrocchia.

Don Mario Usubelli

Siamo arrivati al 1973. Don Pietro Bognini fu nominato direttore della Comunità Missionaria del Paradiso e fu chiamato a Bergamo. Don Paolo Rota lasciò la parrocchia per andare a prestare la sua opera in Missione, a La Chaux de Fonds in Svizzera.

Fu nominato parroco don Mario Usubelli, affiancato da don Mario Benigni, ai quali si aggiunsero don Pasquale Ghilardi e don Franco Ravasio. Successivamente arrivarono don Ubaldo e don Pietro Bottazzoli.

Don Mario Usubelli era persona molto diversa dal suo predecessore.

Innanzitutto le sue propensioni naturali erano caratterizzate da una certa timidezza personale, da una minore attitudine a mettersi alla testa dei suoi fedeli, da una intrinseca pacatezza. Anche il taglio culturale era diverso: don Mario non era un capopopolo, era un musicista. La sua direzione pastorale determinò le conseguenze naturali che la sua personalità lasciava presagire. Si curò con maggiore sollecitudine l’aspetto liturgico e l’aspetto della catechesi. Insomma, venne sollecitata un’attenzione rinnovata per la ricerca di una maturazione interiore, per un apostolato più raccolto e personale.

Molti catechisti, tuttora operanti in parrocchia, cominciarono a offrire in quegli anni il loro contributo.

La caratteristica esteriore più significativa della sua direzione fu la cura del canto durante la liturgia e la creazione della “corale”, che ha preceduto nel tempo e nello

spirito l’attuale formazione che guida la comunità nel canto liturgico.

Nel 1975 fu creata la Scuola Materna San Giustino, presso la casa delle suore della Provvidenza di viale Alessandrino, in favore delle mamme lavoratrici. La Scuola Materna ebbe da subito la caratteristica di aprirsi alle famiglie, adottando un orario molto flessibile. La retta era ragionevole in quanto la scuola cercava di contenere le spese: era amministrata da un comitato di gestione formato da parrocchiani, il personale operativo era costituito dalle suore stesse, sostanzialmente non retribuite. L’asilo era importante perché concedeva una possibilità in più alle donne lavoratrici del territorio per sistemare convenientemente i propri ragazzi; infatti per accedere all’asilo nido pubblico occorreva sottostare a una lista d’attesa di lunghezza biblica. L’asilo parrocchiale offriva un servizio di qualità, ulteriormente impreziosito dagli orari non rigidi.

Nel 1976 don Mario Usubelli fu inviato a dirigere la parrocchia di Santa Croce a Sesto Fiorentino. Anche don Mario Benigni lasciò la parrocchia.

Fornisco ora alcune notizie di carattere storico generale, per Inserire gli anni di don Mario Usubelli in un quadro di riferimento comprensibile. Mentre don Mario Usubelli dirigeva la parrocchia, nel mondo avveniva che: nell’anno 1973 il generale Pinochet attuava un golpe in Cile. In conseguenza di quest’avvenimento Enrico Berlinguer pubblicava un articolo su “Rinascita” in cui auspicava un’intesa fra comunisti e cattolici e candidava queste forze politiche alla guida del paese. Pareva aprirsi una porta, quella del dialogo fra gli schieramenti politici più rilevanti del nostro paese, che, invece, rimase chiusa fino alla caduta del muro di Berlino. Nel 1974 si effettuava il referendum sul divorzio, e, inaspettatamente, i “no” vincevano con oltre il 59 per cento dei voti; nello stesso anno avvenivano le stragi di piazza della Loggia a Brescia e l’attentato al treno “italicus”.

Don Pietro Bottazzoli

Nel 1976 fu nominato parroco don Pietro Bottazzoli con cui collaborarono don Pasquale e don Bruno Vercesi, oltre che don Franco Defendi, che la comunità di San Giustino aveva già conosciuto, come studente, all’epoca di don Pietrone e di don Paolo.

Don Pietro Bottazzoli, detto don Pierino, era persona dall’apparenza piuttosto burbera, ma chi lo conosceva aveva modo di cambiare radicalmente quest’impressione, solo superficiale.

Seguendo un’intuizione che già aveva avuto don Mario Usubelli, don Pietro riteneva che la Parrocchia si trovava fisicamente a essere piuttosto decentrata rispetto al suo territorio: pertanto decise di dislocare l’attività liturgica e di catechesi anche nelle cappelle di via degli Olmi, di via della Bella Villa e di via del Grano. In questi luoghi avveniva anche la catechesi preparatoria per le Comunioni e gli incontri per adulti sulla lettura del Vangelo.

Istituì per la prima volta una catechesi di tipo familiare, che si rivolgeva, contemporaneamente, ai genitori e ai loro figli adolescenti. Don Pietro era anche molto attento agli anziani e agli ammalati. Nel 1979 fu creato il primo gruppo di pensionati

I gruppi parrocchiali crescevano. Nel 1977 arrivò da Bergamo don Armando Brambilla, novello prete, in verità milanese (di Cologno monzese), per dirigere l’oratorio.

In quegli anni Don Franco Defendi si spendeva nell’affermazione e nella diffusione della proposta del movimento pastorale del “Rinnovamento dello Spirito”.

Nel settembre 1980 arrivò a san Giustino don Alberto Mascheretti, che ebbe grande popolarità fra i ragazzi dell’oratorio.

Nel 1981 don Pietro propose ai laici della comunità una compartecipazione maggiore nella direzione delle cose pastorali, e fu istituito il Consiglio Pastorale Parrocchiale.

La Parrocchia divenne sempre più un luogo di comunità: ritiri spirituali con le famiglie e i catechisti, corsi di Catechesi al Vicariato.

Fu creato il gruppo dei donatori di sangue. Per la prima volta un’équipe di medici e infermieri veniva a San Giustino, recando tutta l’attrezzatura occorrente, per rendere possibili le donazioni di sangue in loco, senza dover raggiungere l’ospedale. Su questo gruppo di donatori, rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, si baserà la futura Associazione di Volontariato, dedicata appunto al nome di don Pietro Bottazzoli, che vedrà la luce con don Giulio Villa

Negli stessi anni sorse il gruppo “Aiuto fraterno”, premessa di quella che sarà, negli anni successivi, la Caritas parrocchiale.

Fu in quegli anni che la parrocchia avviò una collaborazione con alcuni giovani della Comunità di Sant’Egidio, che animavano la Messa in un locale di via dell’Alloro e che allacciarono rapporti di amicizia, e di sostegno, con alcuni anziani e con alcune famiglie di giovani colpiti da handicap. Questa collaborazione pastorale continua ancor oggi.

Avvenimenti importanti furono, durante la direzione di don Pietro Bottazzoli, il festeggiamento per il 25° anno di fondazione della Parrocchia nel 1978, e la visita di Sua Santità Giovanni Paolo Secondo, nel 1982, per il trentesimo anno di fondazione.

Molto significativa, per le conseguenze che tale realizzazione avrà nel futuro, fu anche la ristrutturazione di quello che era stato il cinema parrocchiale, nel 1985, trasformato in un vero e proprio teatro, attrezzato in modo da potervi svolgere spettacoli di prosa, con tanto di sala di regia e impianto luci.

Don Pietro Bottazzoli lasciò san Giustino nel 1986, per andare a dirigere la parrocchia di San Francesco e Santa Chiara, a Ponte Sesto di Rozzano, provincia di Milano.

Gli anni della direzione parrocchiale di don Pietro Bottazzoli, dal 1976 al 1986, furono molto significativi nel Mondo, nella società civile, in Italia e nella città. Furono gli anni del terrorismo, rosso e nero. Nel 1978 avvenne il sequestro Moro. Nello stesso anno morì Giovanni Paolo primo e venne eletto papa Giovanni Paolo secondo. Nel 1980 avvenne la strage della stazione di Bologna e cominciarono le trasmissioni di canale 5. Nel 1981 un referendum confermò la legge sull’aborto e il terrorista turco Ali Agca sparò sul papa, a piazza san Pietro. Nel 1982 l’Italia vinse i mondiali di calcio. Nel 1984 morì Enrico Berlinguer, si svolsero le olimpiadi di Los Angeles, boicottate dalle nazioni di quasi tutto il blocco sovietico. Nel 1986 Portogallo e Spagna entrarono a far parte della Comunità Economica Europea e avvenne l’esplosione di un reattore nucleare nella centrale di Cernobyl.

Don Armando Brambilla

Nel 1986 la direzione della parrocchia è affidata a don Armando Brambilla, già vice parroco, fino al 1994, quando viene consacrato Vescovo. Al posto di don Pietro arriva don Mario Belotti. Don Alberto Mascheretti riceve l’incarico di dirigere l’oratorio, e sarà sostituito nel 1988 da don Giulio Villa.

Don Armando Brambilla fu un grande parroco, un appassionato servitore di Cristo, innamorato della sua missione e della comunità che fu chiamato a dirigere. Non parlerei solo delle sue qualità di sacerdote, che pure erano specialissime, apprezzate da tutti coloro che lo conobbero e riconosciute anche ai massimi livelli, come ha dimostrato la sua ordinazione vescovile, dalla Chiesa di Roma.

Le capacità e la sensibilità umane di don Armando erano veramente rare.

Aveva il dono di farti sentire unico e indispensabile Tutti coloro che lo frequentavano, avevano, contemporaneamente, la stessa sensazione di sentirsi al centro del suo cuore. Non aveva preferenze non faceva

differenziazioni: c’entravamo tutti, in quell’anima grande. Aveva un’attenzione nei confronti delle persone addirittura sorprendente: se gli confidavi una storia, o se lo informavi di una questione personale, o se gli manifestavi un dubbio, un’incertezza che riguardava la tua vita, ti esprimeva con immediatezza e con carità la sua opinione. E ti sbalordiva e ti stupiva come, anche dopo alcuni mesi trascorsi dalla confidenza, lui per primo, allorché avveniva un nuovo colloquio personale, ricordasse i particolari e ti facesse domande e considerazioni rispetto a quei temi che tu avevi toccato allora.

Don Armando aveva una sensibilità naturale per l’arte e per il teatro. La sua educazione era stata, a causa del suo essere stato precocemente orfano, un po’ da autodidatta, costretta a far i conti presto con la durezza della vita, con la necessità di sostentarsi da solo. Tuttavia crebbe con una personalità non gretta e materialista, naturalmente orientata al bello e al buono.

Curava personalmente, ad esempio, l’addobbo floreale della Chiesa e la drappeggiatura dei tendaggi e delle stoffe, nei riti liturgici.

Amava anche profondamente il teatro. Credeva che le rappresentazioni teatrali fossero un ottimo strumento di edificazione del popolo di Dio. Riteneva infatti che la rappresentazione scenica fosse utilissima, sia perché un testo recitato, opportunamente scelto, poteva essere d’insegnamento al pubblico che accorreva nella sala della comunità, considerato anche il basso livello culturale medio della gente che frequentava la parrocchia, sia perché l’ azione teatrale poteva assumere aspetti molto educativi riguardo all’impegno personale, per coloro che erano coinvolti con la rappresentazione. Per fare teatro occorreva impegno e metodo: bisognava prevedere un responsabile dello spettacolo, che si assumesse l’onere della regia (in una prima fase, don Armando stesso fungeva da manager dello spettacolo ed esercitava il ruolo di guida). Occorreva anche motivare e coordinare l’impegno di un gruppo di attori perché tutti convergessero sullo stesso obiettivo, senza essere professionisti, al semplice scopo di divertirsi per contribuire a un’opera educativa. Occorreva anche pensare alle esigenze pratiche: reperire volontari che rendessero possibile la messa in scena curando gli aspetti tecnici, le luci e il sonoro; oppure che si occupassero delle scenografie e dei costumi, dei lavori di sartoria e falegnameria. Con criteri analoghi e finalità similari si organizzavano le sacre rappresentazioni e il presepio vivente, in parrocchia, ma anche per le strade del quartiere.

Quest’attenzione per l’arricchimento culturale del popolo di Dio era sempre presente in don Armando. E allora si fece promotore dell’associazione “3 C”, ovvero “Cristiani con la Cultura”, che si proponeva il tema, allora strettamente all’ordine del giorno, dell’arricchimento culturale dei frequentatori della parrocchia, tramite concerti musicali, incontri e dibattiti su argomenti di interesse generale, religiosi e laici, ma anche con l’istituzione di iniziative stabili, quali scuole di musica o di teatro. In materia musicale, si cominciò a poter contare su alcuni giovani che si erano formati al conservatorio, e che erano in grado di suonare in pubblico, a dimostrazione di un progresso culturale ormai avviato.

Nella gestione generale della parrocchia don Armando era profondamente convinto della necessità della compartecipazione e corresponsabilità dei laici. Sposò con entusiasmo la scelta del suo predecessore e rese stabile la scelta del Consiglio Pastorale parrocchiale.

Incrementò il gruppo dei catechisti, già rilevante nella gestione di don Bottazzoli. Soprattutto fu l’animatore e il creatore del progetto delle “Comunità di Diaconia”.

Don Armando concepiva l’oratorio e la comunità degli adulti in modo unitario, e considerava i catechisti come i suoi principali collaboratori.

Le comunità di diaconia chiamavano tutto il popolo di Dio a un’attenzione specifica per la parola di Dio. Il lunedì sera si era chiamati a uno studio approfondito del Vangelo, a partire dal Vangelo di Marco, secondo una gradualità che proseguiva con i Vangeli di Luca, di Matteo, di Giovanni e con gli Atti degli Apostoli. Il procedere della catechesi era segnato da alcune tappe: la “lettera d’impegno” in virtù della quale si era chiamati, ad un certo punto del cammino, a tradurre in concreto i risultati del proprio percorso, assumendosi un impegno concreto di servizio nella comunità parrocchiale e il “rito della luce” che marcava l’avvio di una fase di maturità. Lo schema era molto semplice: il sacerdote illustrava il brano evangelico; i presenti intervenivano nella discussione, incentrata sulla propria esperienza di vita, analizzando gli aspetti, le situazioni o i personaggi del testo in riferimento alle scelte personali, alla pratica di vita, ai rapporti che si vivano ciascuno nel proprio posto di lavoro, ciascuno nella propria situazione esistenziale. Dallo studio della Parola si era chiamati alla celebrazione liturgica collettiva, vissuta all’interno della Comunità e infine, all’impegno personale nelle attività parrocchiali, nel servizio.

Il servizio, insomma, era visto come la conclusione di un percorso di crescita e di formazione; si trattava di un processo in divenire, che proseguiva nel tempo, sia con la catechesi, sia con il lavoro volontario.

Le Comunità di Diaconia ebbero subito un successo di partecipazione straordinario. Se ne ebbero fino a otto, contemporaneamente, ciascuna con una ventina di partecipanti. I sacerdoti della Parrocchia erano insufficienti per coordinare i vari gruppi e don Armando chiedeva aiuto ai sacerdoti-studenti del Collegio Lombardo, presenti a Roma per specializzare la loro formazione.

Le comunità di Diaconia erano al termine del percorso educativo che iniziava in Oratorio. Al raggiungere della maggior età, i gruppi dovevano fondersi naturalmente nelle comunità di adulti.

Don Armando aveva anche avviato il funzionamento del Centro d’Ascolto Caritas, che poteva contare su un piccolo gruppo di operatori, alcuni dei quali attivi ancor oggi. Aveva già intuito che la carità in parrocchia non poteva essere un’attività occasionale ed estemporanea, ma occorreva individuare persone che si dedicassero, se non esclusivamente, almeno con una certa continuità al servizio dei poveri, e affidare loro questo servizio, a nome e per conto della comunità.

Con grande attenzione si curava la formazione delle giovani generazioni in Oratorio, che aveva al centro la preparazione per la Comunione e per la Cresima. Questo compito riguardò nella prima fase don Alberto Mascheretti, e successivamente, don Giulio Villa, che arrivò in parrocchia nel 1988.

Anche l’Oratorio acquistava un peso rilevante, grazie all’opera di don Alberto, prima, e di don Giulio, poi.

Nella pastorale giovanile fu consolidata la scelta strategica di non utilizzare più lo sport come strumento di formazione, e si orientò l’interesse educativo per i giovani utilizzando, come strumento primario, direttamente l’oratorio, chiamando i ragazzi ad impegnarsi nei propri gruppi di appartenenza, durante l’anno scolastico, ma anche durante le vacanze estive.

Si ebbero allora le partecipazioni ai campi estivi, l’organizzazione dei primo GREST (Gruppi Estivi).

Don Alberto iniziò a indicare un cammino, che don Giulio fece diventare una strada.

Il sacerdote dell’oratorio era una persona un po’ più grande di te che si rapportava a te perché voleva conoscerti, perché voleva presentarti un modo di vivere che tu, da solo, forse non avresti mai conosciuto; nella vita di tutti i giorni abbiamo tutti l’aiuto e il sostegno di Gesù, che ci vuol bene uno per uno, e che non ci propone nulla di straordinario, se non la felicità, in opposizione a un mondo in cui, se non c’è

nessuno che ci aiuta, la solitudine ci relega nel nostro angolo.

E allora il prete è uno di noi, che usa i nostri mezzi di comunicazione, che capisce i nostri interessi, che ci è vicino.

Don Alberto, prima, e don Giulio, poi, hanno personificato questi sacerdoti, e un gruppo consistente di giovani uomini e donne debbono loro i principi sui quali hanno orientato la loro vita.

Unitamente a don Armando, hanno cooperato nell’amministrazione della parrocchia don Mario Belotti, che s’impegnava, oltre che nelle comunità di Diaconia, nella cura degli anziani, nel servizio eucaristico per gli ammalati e nelle confessioni.

Don Mario Defendi, dal canto suo, curava la pastorale nella cappella di via del Grano e, soprattutto, seguiva il gruppo del Rinnovamento dello Spirito, che in quegli anni raggiunse, forse, il suo massimo splendore.

Quella diretta da don Armando era una compagine di sacerdoti molto affiatata e, anche se ciascuno curava il suo settore in modo autonomo, c’era grande comunione d’intenti.

La parrocchia di San Giustino aveva una grande frequentazione di fedeli. L’Oratorio era pieno di giovani. Le Comunità di diaconia erano citate ad esempio nelle altre parrocchie. E don Armando, nella sua cordiale bonomia, nella sua intelligenza pastorale, nella sua umanità era molto amato e stimato dai suoi parrocchiani.

Sul finire della direzione della parrocchia da parte di don Armando, nel maggio del 1994, si verificò un altro fatto straordinario per la comunità: un nostro giovane parrocchiano, Fabio Corona, completava il suo percorso di formazione in seminario e veniva consacrato sacerdote. Fu un evento straordinario e di grande gratificazione per i parrocchiani, ma soprattutto per i sacerdoti che avevano influito sulla sua scelta di vita consacrata. Don Fabio era molto conosciuto in parrocchia per averla lungamente frequentata, da ministrante, prima, e da aiutante in oratorio, poi, quando frequentava San Giustino in qualità di seminarista e di collaboratore.

Evidentemente la stima di cui godeva don Armando non era limitata ai suoi parrocchiani e anche il Papa, per mezzo del cardinale vicario e degli uffici del vicariato, percepì e apprezzò le qualità di questo suo servo.

Un’onoraria nomina a monsignore precedette, infatti, la nomina, nel 1994, di don Armando a vescovo ausiliare di Roma, con l’incarico di sovraintendere alla pastorale sanitaria.

La comunità si San Giustino rimase piena di gioia, ma anche sbalordita nell’apprendere la notizia dell’investitura. Da una parte, la nomina di don Armando a Vescovo ci rendeva orgogliosi e felici, poiché potevamo costatare che il nostro amatissimo parroco era apprezzato anche da Sua Santità, e che la designazione rendeva onore al nostro parroco, ma anche a noi, pecore del suo gregge. Dall’altra parte in molti parrocchiani si originò un sentimento di rammarico, perché colui che era stato tanto bene in mezzo a noi, che aveva così autorevolmente animato la Comunità dei cristiani di San Giustino e che aveva interpretato la sua missione con tale, grande successo, ci veniva sottratto. Alcuni pensavano anche, con preoccupazione, alla difficilissima successione a don Armando, al carico oneroso che le spalle di chi sarebbe dovuto subentrargli dovevano sopportare e alla difficoltà di individuare il suo erede.

In ogni modo, don Armando fu nominato vescovo da Sua Santità Giovanni Paolo secondo in una commovente liturgia eucaristica celebrata a San Pietro, a cui accorse tutta San Giustino.

Don Mario Belotti ritenne conclusa l’epoca del suo servizio a Roma e rientrò nella sua diocesi; da Bergamo arrivarono due nuovi

sacerdoti, don Flavio Rosa e don Luca Guerinoni.

L’incarico di guidare la Comunità di san Giustino fu affidato al primo dei collaboratori di don Armando, il suo vice parroco don Giulio Villa, che accettò quella responsabilità dopo lunga riflessione e, ritengo, dopo un lungo ciclo di preghiere. Don Giulio Villa, tra l’altro, aveva nel 1994 solo trentaquattro anni, e diveniva il parroco più giovane di Roma.

Per inquadrare questi avvenimenti ricordo che all’esterno della vita parrocchiale, nel 1986 avviene il disastro della centrale nucleare di Cernobyl, in Ucraina. Nel 1989 avviene l’abbattimento del muro di Berlino, la fine del regime di apartheid in sud Africa, la fine del regime di Ceaucescu in Romania. Nel 1990 viene sancita la riunificazione della Germania. Nel 1991 si dissolve ufficialmente l’URSS. Nel 1993 avviene la cosiddetta “tangentopoli” e Craxi è costretto a dimettersi. Nello stesso 1993 viene firmato il trattato di Maastricht, che segna l’inizio dell’Unione Europea. Nel 1994 avviene l’inizio dell’attività politica di Silvio Berlusconi.

Don Giulio Giuseppe Villa

Don Giulio Villa assunse la direzione della parrocchia di san Giustino dopo un periodo felice, in cui aveva riportato successi indiscutibili quale responsabile dell’Oratorio.

Un grande numero di giovani adulti possono dire di essersi formati, cristianamente e umanamente, all’epoca in cui don Giulio era il vice parroco di San Giustino.

Il suo stile di prete era immediato, diretto. Instaurava con i ragazzi un rapporto fondato sulla chiarezza. Don Giulio inoltrava la sua proposta cristiana, di felicità e di realizzazione completa della propria vita senza sotterfugi e nella più completa trasparenza. Con la stessa decisione con cui inoltrava il messaggio della catechesi, pretendeva anche un impegno concreto. Presentava una vita cristiana al cui centro doveva essere il Cristo; una vita piena, vissuta interamente, senza nascondere i periodi di crisi e i sacrifici a cui, inevitabilmente, si doveva essere chiamati; ma quella stessa vita avrebbe condotto immancabilmente alla felicità.

A molti giovani dell’Alessandrino questo messaggio era apparso convincente e il gruppo dei suoi sostenitori divenne, ben presto, molto folto.

Don Giulio aveva già dimostrato di saper fare il suo lavoro di prete, con i giovani dell’Oratorio: ora, però, si trattava di aver a che fare con l’eredità lasciata da uno straordinario parroco, di tessere rapporti non solo con le persone che maggiormente amava, i giovani, ma anche con il resto della comunità, anche con coloro che sentiva lontani, legati ad altre esperienze, con coloro con i quali, da vice parroco, aveva forse evitato di entrare in contatto e che, magari, aveva scansato.

Ad occuparsi dell’Oratorio gli subentrarono, come detto, don Luca Guerrinoni e don Flavio Rosa.

Don Giulio era anche persona di grande capacità intellettuale. Le sue prediche non erano mai banali e risentivano, sempre, di uno studio accurato e di un’approfondita preghiera, e ciò le rendeva sempre attuali e contemporanee.

La prima grande situazione che don Giulio si trovò a gestire fu la realizzazione del nuovo oratorio. Per la verità, la costruzione di un nuovo oratorio era già stata pensata all’epoca di Don Armando; era già stato redatto il progetto, era già stata raccolta una cospicua somma di denaro.

I lavori ebbero inizio subito dopo la nomina di Don Giulio ed ebbero termine nel 1995. Furono quasi due anni d’impegno gravoso e anche forieri di una certa preoccupazione, per un parroco così giovane, chiamato così presto a fare “il controllore dei lavori”, a verificare la corrispondenza della realizzazione rispetto ai piani programmatici, a fare scelte sui materiali e sulle finiture, a preoccuparsi per l’accumulo

dei denari da restituire periodicamente, fino a estinzione del mutuo. Le difficoltà furono di molteplice natura: si passò dalle incomprensioni con la direzione tecnica dei lavori alle difficoltà obiettive costituite dall’esercizio ordinario della pastorale in una parrocchia in cui era aperto un cantiere edile di vaste proporzioni.

La ristrutturazione dell’oratorio si era resa necessaria perché il Centro Sportivo esistente, in quella forma, non era più adatto per le attività oratoriali. Si disponeva di un campo di calcio di misure regolamentari, ma ormai inutile e di alcuni spogliatoi parzialmente inutilizzati che occupavano la parte centrale di un edificio che avrebbe essere potuto essere utilizzato in modo più proficuo se destinato primariamente all’oratorio. I lavori crearono un’importantissima cavea adatta ad ospitare i grandi eventi, anche le celebrazioni liturgiche all’aperto; si realizzò poi una nuova cappella, una sala grande per gli incontri di comunità, una nuova biblioteca, si ristrutturano le aule per il catechismo, e gli spogliatoi vennero decentrati sotto la cavea. Il campo di calcio venne asfaltato e si trasformò in un’area polifunzionale. L’ unico spazio squisitamente sportivo rimase la palestra, ottenuta con un pallone pressostatico che ricopriva i vecchi campi di pallavolo e di pallacanestro.

Raggiunto l’obiettivo della realizzazione del nuovo Oratorio, si pensò a lungo per trovare una forma soddisfacente per gestire la considerevole parte sportiva rimasta nella struttura, in particolare i campi di calcetto e la palestra. Si voleva un Gruppo Sportivo più agile e leggero di quello che c’era stato in passato, in cui fosse sempre presente la passione educativa dell’oratorio, e in cui l’aspetto squisitamente sportivo e agonistico doveva essere sempre coniugato con le finalità educative che erano state scelte. Non che si volesse scacciare i più bravi, ma si ribadiva che il Gruppo non era l’ambito adatto per coloro che nella pratica sportiva volevano eccellere e primeggiare.

Si creò quindi l’Associazione Sportiva San Giustino, autonoma dalla parrocchia, ma coerente con i principi educativi dell’oratorio.

Lo stile di don Giulio era quello di far precedere le realizzazioni da un apposito periodo di preparazione e formazione; pertanto la comunità parrocchiale, e, in primo luogo, gli educatori furono chiamati a redigere il progetto pastorale educativo dell’oratorio. Si realizzò quindi la nuova attività oratoriale, ispirata al modello salesiano di don Bosco.

Si procedette poi alla ristrutturazione della Caritas parrocchiale secondo i criteri che andavano imponendosi in diocesi, sotto la guida del compianto don Luigi Di Liegro, il primo direttore della Caritas diocesana di Roma: una caritas che non si ponesse solo l’obiettivo di erogare aiuti indiscriminatamente, ma che cercasse di allacciare con il povero una relazione di aiuto, fondata sulla pietà e sulla com-passione, secondo l’esempio evangelico di Cristo sofferente, e avendo come modello il racconto evangelico del Buon Samaritano. Questa relazione di aiuto doveva assumere due caratteristiche: quella di un aiuto offerto con serietà e preparazione, ricorrendo cioè al reperimento di tutte le possibili risorse, pubbliche e private, atte a risolvere la situazione di vita di quella persona; e quella di assumere, contemporaneamente, anche un aspetto educativo e pedagogico, mirando a valorizzare nel bisognoso tutte quelle capacità positive, già presenti in lui, sulle quali ci si poteva basare per cominciare un cambiamento, una vita al di fuori del bisogno.

Secondo lo stile di don Giulio, un parrocchiano fu individuato per curare questo nuovo settore, esonerato da altri compiti parrocchiali e invitato a dedicarsi alla preparazione e allo studio. Trascorso questo periodo di formazione, gli fu assegnato l’incarico di coordinare la ristrutturazione dell’attività caritativa della

parrocchia secondo i canoni emersi nel periodo preparatorio.

Con il procedere dell’attività caritativa ci si rese conto che la Caritas parrocchiale aveva bisogno di un sostegno strutturato ed organico per la realizzazione delle sue iniziative, per avere, insomma, un braccio operativo all’interno della comunità parrocchiale. Il parroco e alcuni collaboratori pensarono che un’Associazione di volontariato senza scopi di lucro potesse assolvere adeguatamente i compiti di sostegno della Caritas parrocchiale.

Dopo un periodo d’incontri preparatori e dopo aver costruito il nucleo essenziale di quelli che sarebbero stati gli operatori della nuova Associazione, si elaborò lo Statuto e, nel febbraio del 2000, si giunse alla redazione dell’Atto Costitutivo dell’Associazione di volontariato Don Pietro Bottazzoli, presso lo studio di un notaio di Roma. Don Giulio stesso fu uno dei soci fondatori dell’Associazione.

Per dare un nome all’associazione si pensò a don Pietro Bottazzoli perché durante la sua direzione pastorale avevano avuto inizio i primi esperimenti caritativi in parrocchia e perché era stato creato il gruppo donatori di sangue, che rimase attivo e che costituì, successivamente, la sorgente della nuova Associazione. Successivamente, nel 2008, l’Associazione fu iscritta all’albo regionale delle Associazioni aventi finalità sociali, non aventi scopo di lucro, le cosiddette “onlus”.

L’anno 2000 fu centrale per San Giustino, per il suo oratorio, per don Giulio parroco, ma anche per i vice parroci don Luca, don Flavio e don Giuseppe. Nel 2000, come tutti ricordano, si ebbe il grande Giubileo della Cristianità e, in particolare, in agosto, la grande Giornata Mondiale della Gioventù.

La nostra parrocchia fu designata come uno dei centri direzionali, ospitò centinaia di giovani, fu al centro di un movimento continuo di preghiera, collaborò nella gestione di eventi e di incontri.

In quegli stessi anni ricordiamo la Missione Cittadina voluta dal Papa, la partecipazione in massa della parrocchia agli incontri diocesani e di prefettura, le mille occasioni di preghiera, i centri di ascolto del Vangelo nelle case, che perdurarono ancora diversi anni dopo la conclusione della missione cittadina.

All’epoca della direzione parrocchiale di don Giulio deve essere fatta risalire la definitiva affermazione del giornale parrocchiale “Insieme”. Per la verità, anche con don Armando Parroco veniva pubblicato un bollettino parrocchiale che usciva non periodicamente, ma in alcune occasioni importanti, ad esempio per la festa di san Giustino.

Durante la direzione di don Giulio, “Insieme” divenne un periodico quadrimestrale, con una redazione stabile che progettava l’intero numero e con un sacerdote, don Giuseppe Callioni, che coordinava il gruppo dei redattori e ispirava i contenuti del periodico. “Insieme” non era più solo un bollettino che riferiva sugli avvenimenti nella comunità, ma interveniva anche su argomenti d’interesse generale, aventi un contenuto pastorale, e si puntava anche a orientare il lettore e a dargli alcuni riferimenti.

Il ruolo di direttore del periodico, quando don Giuseppe lasciò la comunità, fu assunto da don Mario Perletti, che garantì la continuità del lavoro svolto precedentemente, pur con alcune modifiche avvenute all’interno del comitato di redazione.

Ancora, durante la direzione parrocchiale di don Giulio, avviene la costituzione di un terza Associazione in ambito parrocchiale, quella degli “Amici di Simone”.

Simone era un ragazzo cresciuto nella parrocchia che, ad un certo punto della vita, si rese conto di avere una grave malattia neurovegetativa, sconosciuta e incurabile, che lo avrebbe condotto all’infermità e all’handicap e, poi, alla morte in età ancor

giovane. Della stessa malattia era afflitto il papà.

Questo ragazzo praticamente deperiva sotto gli occhi dei parrocchiani, che lo vedevano, di giorno in giorno, peggiorare nella malattia. Era passato dalla normalità, progressivamente, all’handicap, alla sedia a rotelle, alla costrizione a letto. Attorno a questo ragazzo si era subito creato un movimento di attenzione e la sua casa, quando il male non gli consentiva di uscire, era il centro di visite quotidiane da parte di chi era stato suo compagno nel gruppo parrocchiale, ma anche da parte di persone le più diverse, attratte dall’immutata positività del carattere di questo giovane, che, pur rendendosi conto nella sua carne del precipitare delle sue condizioni di salute, non perdeva la fede e la speranza. Il giorno di Natale del 2005, Simone morì, circondato da questa moltitudine di affetto e di preghiera. Don Giulio e qualche altro parrocchiano si fermarono a riflettere su come non disperdere questo patrimonio di affetto, di bontà, di solidarietà umana.

Si decise di creare, allora, un’Associazione di volontariato che si occupasse dei giovani e dei ragazzi con handicap, avente come base il territorio parrocchiale, ma volta anche a tutti coloro che erano interessati al problema. I primi a cui fu proposto di far parte dell’Associazione come volontari furono appunto i suoi amici, tutta quella moltitudine di persone che lo andava a trovare mentre era malato. Nel 2006 nacque appunto l’associazione di volontariato “Amici di Simone”, anch’essa iscritta al registro regionale delle associazioni non lucrative aventi obiettivi sociali.

Don Giulio, durante gli anni della sua direzione, sistematizzò molte di quelle che erano state intuizioni dei suoi predecessori.

La collaborazione con i laici divenne organica. Oratorio, Caritas, Associazioni avevano tutte un loro Consiglio Direttivo, che si riuniva periodicamente e che regolava l’attività del gruppo.

Per gestire le questioni economiche, sin dalla nomina a parroco, era stato nominato un “Consiglio per gli affari economici”. Certo, per i collaboratori chiamati a sorbirsi un certo numero di riunioni, si era determinato un appesantimento della vita in parrocchia. Ma si guadagnava qualità, in termini di partecipazione e coinvolgimento. Infatti tutto funzionava bene. Il ripianamento del mutuo ottenuto per la costrizione dell’oratorio si ebbe nei tempi programmati, senza aver mai affrontato situazioni drammatiche.

Nel 2001 don Flavio Rosa e don Giuseppe Caglioni furono chiamati ad altro incarico, nella diocesi di Livorno, e nel 2003 don Luca tornò a Bergamo. A San Giustino arrivarono Don Daniele Bravo, Don Vito Isacchi e don Andrea dell’Acqua, a breve distanza di tempo l’uno dall’altro. Don Vito e don Andrea si occuparono da subito dell’Oratorio, don Daniele si occupava maggiormente degli anziani e degli ammalati, che ancora ricordano la sua abnegazione. Nel frattempo aveva lasciato la parrocchia anche don Marco Perletti. Per la verità don Marco era venuto a Roma soprattutto per studiare all’Università Gregoriana e, sulla carta, la sua collaborazione pastorale era a tempo parziale. Si trovò invece, anche lui, a darsi da fare.

Don Giulio dedicò grande attenzione a pellegrinaggi. Il pellegrinaggio notturno al Divino Amore divenne un’abitudine. Ogni anno si offriva la partecipazione ad un pellegrinaggio, per Lourdes, sia in treno, sia in aereo. Molto frequentemente si viaggiava anche alla volta della Terra Santa.

Durante questi viaggi don Giulio ebbe modo di conoscere l’affetto e la dedizione con cui l’UNITALSI accompagnava i malati ai santuari italiani ed europei. Ne rimase colpito, e volle anche a san Giustino una sezione UNITALSI, ancor oggi esistente.

Si creò un gruppo di volontari che si specializzò per operare durante i grandi eventi parrocchiali, assicurando il servizio d’ordine e garantendo la sicurezza dei

fedeli. Il gruppo UNITALSI si attrezzò anche per effettuare servizio civile, e il nostro gruppo si distinse nelle operazioni di aiuto e di assistenza alla popolazione in seguito al terremoto dell’Aquila nell’aprile 2009.

A differenza dei suoi predecessori don Giulio manifestò amore non solo per la Chiesa e per Gesù Cristo, il che è normale per un sacerdote, ma specificamente, si innamorò di Roma.

Tanto si batté con il suo vescovo di Bergamo, tanto spinse, che nel 2005 coronò il suo desiderio di diventare prete romano, e fu incardinato nella diocesi di Roma.

Don Giulio Villa rimase alla guida di San Giustino per ben 16 anni, dal 1994 al 2010.

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